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La prima guerra fredda del calcio

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C’è sempre un Mondiale di mezzo. C’era nella «prima guerra del football» del luglio 1969 tra El Salvador e Honduras, alle prese con le qualificazioni a Messico 1970 e con antiche rivendicazioni: tutto raccontato in presa diretta da Ryszard Kapuscinski. C’è adesso, nella «prima guerra fredda del calcio», decisamente meno locale di quella centroamericana, sicuramente meno cruenta (nel ’69 i morti furono quasi 6 mila tra militari e civili in cinque giorni di combattimenti) ma più articolata.

Nella guerra fredda del pallone, il calcio giocato è l’ultimo dei problemi. La Russia di Putin ha ottenuto l’organizzazione del Mondiale di calcio 2018 con appena due scrutini. Con quattro scrutini, quello del 2022 è andato al Qatar. Le grandi sconfitte sono state Inghilterra e Stati Uniti. E quando il 27 maggio un’inchiesta dell’Fbi ha portato all’arresto di sette dirigenti della Fifa, la federazione mondiale del calcio, qualcuno ha valutato questa operazione di pulizia contro la gestione del presidente Sepp Blatter come l’extrema ratio: per smantellare la corruzione endemica e nella fattispecie per provare a riscrivere l’assegnazione dei due campionati del mondo, due miniere di denaro già molto discusse prima dello scandalo deflagrato a Zurigo.

Ma è del tutto sbagliato vedere dei collegamenti tra l’azione della polizia americana e le misure economiche e politiche prese contro la Russia per il conflitto in Ucraina? «Il supporto inizialmente dato dal presidente Putin a Blatter di sicuro ha giovato poco a Mosca. E, nella mente dei russi, il senso di vittimismo nei confronti dell’Occidente può avere sicuramente creato un legame. I due processi — spiega a “la Lettura” Robert Edelman, professore di Storia dell’Urss e di Storia dello sport all’Università della California di San Diego — rientrano nel corrente sentimento antirusso che è presente negli Stati Uniti. Ma che ci sia qualcosa di più di un collegamento “ideale” è difficile da sostenere. Ed è salutare che nessuno ne l gove rno americano abbia bloccato l’inchiesta attuale per paura di isolare la Russia. Perché, almeno per il momento, le accuse di corruzione nella Fifa e le indagini sulle tangenti nella procedura di assegnazione dei campionati del mondo sono separate».

Il calcio e la guerra fredda fanno parte da sempre della vita e del lavoro di Edelman, pioniere della storia dello sport («battezzata» nel 1986 da una conferenza internazionale organizzata dall’Università di Stanford) attraverso le analisi della società sovietica, in cui ha vissuto negli anni Settanta, trovando nei lunghi pomeriggi allo stadio a vedere lo Spartak Mosca, «la squadra del popolo», molti elementi per entrare in profondità nella mentalità delle persone comuni, «che non erano dissidenti, ma erano innervate da una giudiziosa resistenza al regime che si manifestava anche attraverso una squadra di calcio».

Oggi tutto è cambiato. Tranne la passione russa per il pallone («e non certo per gli sport olimpici storicamente pompati dal sistema»). Ma lo squadrone dell’Urss (ultima partita giocata, contro Cipro il 3 novembre 1991) ha lasciato posto alla deprimente nazionale allenata da Fabio Capello. Mentre il boom del soccer negli Stati Uniti è reale, sia nel numero di praticanti, che nel prestigio internazionale acquisito: «Ma non vedo — dice Edelman — una sofferenza russa per questa crescita. Il calcio made in Usa gode di buona salute ma non dimentichiamo che è stato a lungo deriso e disprezzato dai suoi detrattori come uno sport di immigrati. Quindi non è tutto oro quel che luccica».

È improprio parlare di una guerra fredda del football? «La guerra fredda era un duello tra due progetti globali con profonde implicazioni ideologiche, sia internazionali che interne ai due schieramenti. Oggi siamo tutti capitalisti. E la competizione è tutta nel capitalismo. La situazione attuale è fatta di tensioni politiche, con forti implicazioni geopolitiche. Quindi ci saranno ulteriori tensioni. Forse il calcio in questo non avrà un ruolo centrale, ma il Mondiale resta uno degli eventi più seguiti del pianeta». E quindi di freddo, ci sono soprattutto le logiche del business.

L’ex campione della Juventus, Zibì Boniek ha detto al «Corriere» che «la Russia è un Paese in guerra e non possiamo organizzare in casa sua un evento come il Mondiale». Boniek ha promesso che a fine luglio diserterà per protesta il sorteggio dei gironi europei di qualificazione, mentre il suo ex compagno in bianconero, Michel Platini, presiede la Uefa, ponendosi a metà strada tra il ruolo di anti-Blatter e quello di erede designato dello svizzero alla guida della Fifa. «Intanto mi chiedo — rilancia Edelman — se i polacchi avessero soldati in Iraq e se i russi si siano forse rifiutati di prendere parte all’Europeo 2012 a Varsavia. Se tutti i Paesi coinvolti in qualche guerra fossero esclusi, la Coppa sarebbe ridotta a poca cosa. Gli Usa non sono forse coinvolti in qualche conflitto adesso? E l’Arabia Saudita o Israele? Se la Uefa è l’Unione europea del calcio credo che le divisioni al suo interno possano essere le stesse che ci sono a livello politico nell’affrontare il conflitto russo-ucraino. Qualcuno potrebbe anche propendere per un boicottaggio del Mondiale, ma non credo sarebbe molto saggio nemmeno verso una parte consistente di opinione pubblica».

Sono lontani i tempi delle Olimpiadi di Mosca e Los Angeles. Ma la Russia di Putin riuscirà ad arrivare in discesa al «suo Mondiale»? «I problemi non mancheranno. Ed è difficile immaginare che Putin nei prossimi tre anni non faccia nulla per urtare la suscettibilità dell’Occidente. Razzismo e xenofobia potranno rappresentare un ostacolo serio alla distensione e al clima cosmopolita di un Mondiale. Putin comunque si gioca molto dietro a questo pallone, anche nella popolarità interna: se il Mondiale dovesse essere organizzato male o se la Nazionale russa dovesse fallire ancora, la sua popolarità diminuirebbe. Da qui al 2018 lo scenario può ancora cambiare. Ma ormai è troppo tardi per togliere la Coppa alla Russia. I contratti sono stati firmati, le costose infrastrutture sono in fase di costruzione. E tre anni non sono un tempo sufficiente per alcun Paese per organizzare un evento come questo, specialmente con gli assurdi criteri richiesti dalla Fifa».

Paolo Tomaselli

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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